Rigoberta Menchú

la donna “intessuta con i fili del tempo"¹

 

 

  

“C'era una volta una bambina che si chiamava Rigoberta... Mi piacerebbe cominciare così questa favola, come facevano i nonni per dare inizio alle storie vicino al fuoco, mentre i ciocchi di legno pian piano diventavano rossi, le fiamme illuminavano i visi di tutti, le scintille scoppiettavano nell'aria, e il calore si diffondeva nell'ambiente. Forse, se la cominciassi così, tornerei anche bambina e mi troverei di nuovo nel villaggio in cui sono nata.

   Mi chiamo Rigoberta. Il mio villaggio si chiama Chimel, quando è grande, e Laj Chimel, quando diventa piccino. Perché il mio villaggio a volte è grande e a volte è piccolo. Nei periodi buoni, quando c'è il miele e le pannocchie di granoturco con il loro peso piegano le piante, quando le orchidee di tutti i colori (gialle, verdi, violetto, bianche, screziate) fioriscono e sfoggiano il loro splendore, allora il mio villaggio diventa grande e si chiama Chimel. Nei periodi difficili, quando il fiume si secca, i pozzi stanno nell'incavo della mano e uomini malvagi distruggono la terra, quando ormai la tristezza è insopportabile, allora diventa piccino e si chiama Laj Chimel.

   Ora mi ricordo di Chimel...

   Una volta don Benjamin Aguaré, un vecchio saggio del villaggio, mi disse:

   «Con la nostra Madre Terra siamo un tutt'uno.»

   Ora mi ricordo di Chimel...

   C'erano molti vecchi saggi a Chimel.

   C'erano, perché adesso non ci sono più.

   Tra questi c'era mio nonno. Adesso vi racconto la sua storia...”

   ( da La bambina di Chimel di Rigoberta Menchú² )

 

 

 

   Rigoberta Menchú Tum è nata nel villaggio di Chimel, nel municipio di San Miguel de Uspantán, Quiché, nella terra del maíz - il Guatemala³ - il 9 gennaio del 1959. Appartiene al gruppo etnico dei Maya Quiché. Il villaggio di Chimel era stato fondato da suo nonno, che glielo descriveva così: «Vivevamo in armonia con la natura, il fiume ci faceva divertire e potevamo farci il bagno, gli uccelli riempivano di canzoni le mattine, gli animali ci davano da mangiare e ci facevano compagnia, le montagne ci proteggevano, la terra sacra ci regalava i frutti delle sue viscere.»

   E’ figlia di due persone molto rispettate nella loro comunità, Juana Tum K’otojà, esperta nei saperi del parto, e Vicente Menchú Pérez, combattente per la terra e per i diritti degli indigeni. Da loro impara a rispettare ed amare la natura, la sacralità dei suoi luoghi e la vita collettiva delle comunità indigene.

   Immersa in un regime dittatoriale, conosce però anche fin da bambina le durissime situazioni di vita degli indios guatemaltechi. Il tempo che trascorre con i genitori è assai breve, anche perché per sopravvivere lei è costretta a lavorare subito, dall’infanzia, come bracciante agricola migrante, ma soprattutto perché la sua famiglia è decimata dalla violenza dei militari. Il padre perisce con altre trentacinque persone nel massacro che segue l’incendio dell’ambasciata di Spagna; la madre, torturata violentata e seviziata, è lasciata a morire in un bosco; i fratelli Patrocinio e Victor si spengono di stenti.

   Dice Rigoberta: «Mia madre l’avevo sempre vista piangere, e anch’io fino ad allora avevo avuto paura della vita, mi chiedevo: Cosa sarà di me, da grande? Quando è morto mio padre non avevo preso ancora coscienza, però quando è successa la tragedia di mia mamma mi sono detta: Davanti a questo non tacerò mai. Mai. Non avevo altro desiderio che difendere a posteriori le loro vite… Ma poi i miei orizzonti si sono allargati, e ho riconosciuto una tragedia universale. Perciò ho cominciato a sentirmi parte di una lotta per rivendicare l’onorabilità della vita e della storia.»

   Rigoberta si impegna con vari gruppi a favore del popolo indigeno, e impara lo spagnolo: «Han sempre detto: poveri indios, che non sanno parlare. E perciò molti parlavano per loro. Ecco perchè ho deciso di imparare il castigliano. »

   Nel 1978 entra a far parte del Comitato di Unidad Campesina (CUC).

   Ben presto il governo del Guatemala la dichiara nemica pubblica. Per salvarsi la vita, nel 1981 deve riparare in Messico, e diventa parte della Rappresentanza Internazionale del CUC. In Messico si impegna in un instancabile lavoro di denuncia sul genocidio in Guatemala, ed inizia la sua vita di esperienza e di lotta in tutti gli spazi della comunità internazionale in favore del rispetto dei Popoli Indigeni del Mondo. Lontana dal Guatemala, si prodiga per far conoscere la causa degli indigeni delle Americhe, e trova sostenitrici e sostenitori in tutto il mondo. Nel 1982 pubblica il libro Io, Rigoberta Menchú, che ottiene un enorme riscontro a livello internazionale e aiuta ad indirizzare l’attenzione sul Guatemala.

   Nel 1983, invitata in Europa da organizzazioni umanitarie per testimoniare la sua vicenda, racconta ad Elisabeth Burgos-Debray non solo la drammatica esperienza personale vissuta, ma anche i segreti Maya che avevano permesso al suo popolo di sopravvivere, cinquecento anni dopo la conquista.

   Dal 1982 al 1994 partecipa – prima indigena guatemalteca – al gruppo di Lavoro sulle Popolazioni Indigene della Commissione dei Diritti Umani dell’ONU, e sempre nel 1982 contribuisce alla fondazione della Rappresentanza Unitaria dell’Opposizione Guatemalteca, nella cui direzione rimarrà fino al 1992.

   Nel 1986 entra nella Commissione Nazionale di Coordinamento del CUC.

   Nel 1992 vince il Premio Nobel per la Pace, per la sua lotta in difesa dei poveri, degli emarginati e, in modo particolare, dei popoli indigeni del pianeta. All’indomani della consegna del Premio dice al mondo: «Il mio Paese gronda sangue. In 30 anni di guerra ci sono stati più di 150.000 morti, 75.000 vedove, 439 esecuzioni senza processo, 15 massacri collettivi, oltre 100.000 esiliati, numerosi cimiteri clandestini che la gente però sa dove si trovano. La gente sa anche chi sono i responsabili. Una ferita profonda che deve essere rimarginata. Un problema che deve trovare spazio nel processo di dialogo e di pacificazione, se vogliamo veramente una pace duratura. La catena delle stragi deve spezzarsi definitivamente.»

   Dal 1993 partecipa alle Assemblee Generali dell’ONU. Sempre nel 1993, anno internazionale dei Popoli Indigeni, è nominata Ambasciatrice di Buona Volontà. E’ assessora personale del direttore generale dell’Unesco, e presidente di Iniciativa Indigena para la Paz. (Iniziativa Indigena per la Pace.)

   Ha avuto numerosi riconoscimenti e molte lauree honoris causa in diverse nazioni. Il suo impegno è conosciuto in Italia anche grazie ai due libri: Mi chiamo Rigoberta Menchú e Rigoberta, i maya e il mondo.

   «Sono figlia della miseria e della disuguaglianza sociale; sono un caso esemplare di emarginazione, per essere Maya e per essere donna. Sono sopravvissuta al genocidio e alla crudeltà,» dice Rigoberta, «e credo che il coraggio e la forza nascano dalle impronte lasciate dall’esperienza. Gli anni ci fanno maturare, però non mi sento una donna fortissima. Se lo fossi, magari potrei accettare la crudeltà, l’emarginazione, la fame e la povertà che vedo in regioni come il Guatemala, il Chiapas o il Ruanda.»

   Rigoberta è disposta ad affrontare tutte le avversità per continuare con il proprio impegno. Sta lavorando e partecipa alla Decade per una Cultura della Pace, contro la violenza e per un Mondo Interculturale(2000-2010).

   Ha costituito la Fondazione che porta il suo nome ( http://www.frmt.org/ ). La missione della Fondazione è «contribuire a recuperare ed arricchire i valori umani per la costruzione di un’etica di pace mondiale, attraverso la lotta per la giustizia e la democrazia, specialmente per i popoli indigeni.» La Fondazione vuole anche contribuire a un movimento nazionale di donne Maya, e creare una scuola politica di trasmissione delle esperienze affinché queste donne si convertano, con il sostegno della cultura ancestrale dei popoli Maya, nelle governanti del futuro.

   Rigoberta continua ad esser protagonista di azioni scomode: in Guatemala, ancora nel maggio del 2000, è stata denunciata per tradimento della patria. Si era rivolta al giudice spagnolo Garzón (lo stesso che ha suscitato il caso del dittatore cileno Augusto Pinochet), perché aprisse un procedimento contro otto esponenti guatemaltechi per l'assassinio di quattro preti spagnoli e il massacro dell'ambasciata spagnola in Guatemala del 1980, quello in cui trentasei manifestanti, fra cui suo padre, vennero bruciati vivi. Fra i denunciati c'era anche l'ex dittatore Efrain Rios Montt, all’epoca presidente della Camera e molto vicino al presidente Alfonso Portillo.

   Ugualmente attiva al fianco del "Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra" ha messo in luce gli abusi che tuttora vengono commessi in Brasile e in altri paesi dell'America Latina.

   Di fronte alle mille difficoltà, e davanti ai suoi oppositori, dice: «Credo dipenda dal complesso e controverso ruolo che ho, come persona – e che abbiamo come Fondazione. E’ normale che la risposta sia contraddittoria, perché abbordiamo tematiche assai complicate. Tutte le lotte che hanno come fine ultimo la verità e toccano i poteri forti, portano con sé dei rischi. Ci sono assassini in Cile, in Argentina, in Guatemala. Mi dà i brividi pensare che vivano nei nostri paese. Non temo soltanto gli esecutori diretti, temo quasi di più i poteri che stanno alle loro spalle. Ma continuo a sognare un millennio di pace, e non smetterò di cercar di riscattare dal sangue e dalle atrocità il vero sentimento della solidarietà.»

   La sua scelta non ha limiti di tempo né di spazio. Come ha scritto: «Soltanto noi, che portiamo la nostra causa nel cuore, siamo disposte a correre ogni rischio.»

   La voce di Rigoberta è una delle più coraggiose voci di donna che si alza, anche in campo internazionale, contro l'emarginazione e l'ingiustizia sociale, politica, culturale delle minoranze etniche.

 

                                                                           

 

1) Così la chiama Eduardo Galeano.

2) Con Dante Liano, (Sperling & Kupfer 2000, titolo originale Li M'in, una niña de Chimel).

3) Riassumiamo in breve la storia del Guatemala. I villaggi di agricoltori e di pescatori sorti nel 2000 a.C. lungo la costa guatemalteca del Pacifico si possono considerare i precursori della grande civiltà Maya che per secoli domina in tutta l'America centrale, lasciando poi in eredità soltanto le misteriose rovine tuttora visitabili. Intorno all'anno 250, nella cosiddetta epoca classica, sorgono sugli altopiani del Guatemala i grandi centri cerimoniali; durante il tardo periodo classico (dal 600 al 900) il potere centrale si sposta nelle pianure di El Petén. In seguito all’inspiegabile crollo della civiltà Maya, si stabilisce nella regione di El Petén anche la cultura Itzá, in particolare intorno al luogo dove attualmente sorge Flores.

   Al suo arrivo nel 1523, Pedro de Alvarado, giunto su ordine del re di Spagna per conquistare il Guatemala, non trova che i resti dell'antica civiltà Maya e un gruppo di tribù belligeranti. I regni dei Maya Quiché e Cakchiquel vengono spazzati via in breve tempo dagli eserciti di Alvarado, le terre divise in grandi latifondi e le popolazioni indigene sfruttate senza pietà dai nuovi proprietari. Il fondamentalismo religioso dei frati domenicani, francescani e agostiniani, giunti poco dopo i conquistadores, causa la distruzione anche di preziose testimonianze della cultura Maya.

   L'indipendenza del Guatemala dalla Spagna, nel 1821, porta nuove ricchezze agli abitanti di sangue spagnolo (creoli) ma peggiora ulteriormente la situazione per i discendenti Maya: le già poche misure protettive applicate dalla corona spagnola sono abolite, enormi appezzamenti di terra sono sottratti ai Maya e utilizzati per la coltivazione di tabacco e canna da zucchero, in cui i Maya stessi vengono impiegati come schiavi. A partire dal raggiungimento dell'indipendenza, la politica del paese è sempre caratterizzata da continue lotte di potere tra fazioni di destra e di sinistra, nessuna delle quali in ogni modo pone mai come priorità il miglioramento delle condizioni dei Maya.

   L'alternanza al potere di dittatori e di leader liberali, con le loro politiche puramente economiche, è interrotta dall'arrivo di Juan José Arévalo - che instaura un sistema di previdenza sociale, servizi sanitari, e un ente per la salvaguardia delle popolazioni Maya. Al potere dal 1945 al 1951, mentre il paese peraltro si riempie di gerarchi nazisti fuggiti dall’Europa, il regime liberale di Arévalo conosce 25 tentativi di colpo di stato perpetrati dalle forze conservatrici dei militari. Il suo successore, il colonnello Jacobo Arbenz Guzmán, prosegue con una politica liberale e istituisce una legge di riforma agraria volta a scardinare il sistema del latifondo e promuovere la nascita di piccole ma produttive aziende agricole a gestione individuale. La legge di esproprio delle terre controllate da società straniere (una politica appoggiata anche dal Partito Comunista Guatemalteco) provoca però l'intervento nel paese della CIA che, nel 1954, appoggia un colpo di stato che porta alla fuga di Arbenz Guzmán a Cuba e all'interruzione della riforma agraria.

   Negli anni successivi la presidenza è affidata a diversi esponenti militari, fino a che l'intensificarsi delle proteste e della repressione provoca lo scoppio della guerra civile.

   La forte industrializzazione degli anni '60 e '70 aiuta le classi più elevate ad arricchirsi ancora di più, mentre le città si fanno sempre più invivibili con l'arrivo in massa dei diseredati rurali in cerca di impiego.

   La violenta repressione da parte dei militari convince infine gli Stati Uniti a interrompere gli aiuti militari e porta nel 1985 all'elezione del cristiano democratico Marco Vinicio Cerezo Arévalo. Ai cinque anni di governo di Arévalo segue la presidenza di Jorge Serrano Elías, che vince le elezioni alla testa del Movimiento de Acción Solidaria. Tuttavia, il nuovo presidente non riesce a porre fine a decenni di guerra civile e, vedendo diminuita la propria popolarità, si appoggia sempre più al potere militare. Il 25 maggio 1993, dopo una serie di proteste pubbliche, Serrano mette a segno un auto-golpe. Privato dell'appoggio popolare, il presidente lascia il paese e al suo posto viene eletto Ramiro de León Carpio, un aperto antagonista dell'esercito. La politica inaugurata da Carpio, basata sulla legge e sull'ordine, è ripresa dal suo successore Alvaro Arzú, che cerca di risollevare il paese con politiche neo-liberali. Dopo le elezioni del 14 gennaio 2000 si costituisce un nuovo governo, guidato da Alfonso Portillo, esponente della destra. Reo confesso di omicidio, Portillo vince sostenendo che se ha potuto difendere se stesso, difenderà anche i cittadini. La principale promessa della sua campagna elettorale ha per oggetto la riorganizzazione delle forze armate del paese. Per stimolare l'economia, nel giugno 2000 il Guatemala, insieme a El Salvador e all'Honduras, firma un accordo di libero scambio con il Messico. Nel 2003 il dittatore militare Efrain Rios Montt, responsabile del massacro di decine di migliaia di persone durante la guerra civile, è riconosciuto dalla Corte Suprema idoneo a partecipare alle elezioni presidenziali di novembre. Le elezioni, tuttavia, segnano la sconfitta sia di Rios Montt sia del presidente in carica Portillo, e la vittoria di Oscar Berger Perdomo, un avvocato conservatore sostenuto dalle oligarchie industriali e terriere. Portillo e l'ex dittatore Efran Rios Montt sono agli arresti domiciliari per genocidio.

   Il presidente Berger è in sella da due anni, ma l'attività di governo ristagna. L'unica misura approvata è stata di compensare in denaro gli ex membri dei gruppi paramilitari. Le vere sfide del governo sembrano esser state accantonate.

   Il principale problema che ostacola il cammino verso una pace durevole sono le grandi ingiustizie nel tessuto sociale ed economico della società guatemalteca, in cui i poveri sono l’80% e i più poveri tra i poveri sono gli autoctoni di origine Maya – tra il 45 e il 56% dell’intera popolazione guatemalteca.

 

 
 

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